Oggi ho visto questo sketch e mi ha fatto pensare all'università. Al sistema educativo in genere. E mi è ritornato alla mente un sondaggio che ricevetti da AlmaLaura qualche mese dopo la mia laurea. Tra le altre domande, mi chiedevano quanto l'università mi avesse aiutato a trovare un lavoro e che ruolo avesse giocato nel farmi arrivare dove sono oggi. Le risposte sono, molto poco e insignificante.
Un salto nel passato
Non lo sapevo ancora, ma quel professore sarebbe diventato il mio personale faro universitario e quel corso — che scoprii poi essere mirato completamente alla traduzione — mi avrebbe fatta capire quanto adori le lingue, la loro grammatica e la loro versatilità. Scoprii di essere una buona traduttrice e decisi di seguire quel percorso, seguendo tutti i corsi di traduzione e scrittura che trovassi.
Non servì a molto. Oggi, traduco solo ogni tanto e tutto il mio tempo lo dedico all’insegnamento della lingua inglese, che ho scoperto ben dopo l’università essere un mio vero e proprio talento innato, perfezionato poi con anni di pratica.
Quindi, in un certo senso, l’università che ho scelto mi ha indirizzata verso dove sono arrivata oggi. Ma niente di più.
Che cosa (non) mi ha dato l'università
Che cosa avrei voluto dall'università
Magari — e solo magari — non avrei abbandonato la traduzione per l’insegnamento.
L'unica vera abilità? Saper passare esami
In più — e va detto — le lingue le parlavo non certo grazie all’università, ma grazie a mesi di lavoro in un ristorante in Spagna dove ho imparato lo spagnolo e conosciuto mio marito, che avrebbe fatto dell’inglese la mia lingua primaria.
E quindi torno al sondaggio di AlmaLaurea.
• La laurea mi ha aiutata a trovare un lavoro? Non direi. Sono stati la mia determinazione e il mio eclettismo a portarmi dove sono oggi, un posto che non ha nulla a che vedere con la traduzione. L’università mi ha forse aiutata a capire dove volessi andare, ma l’ha fatto nei primi due mesi; i restanti 2 anni e 10 mesi sono stati, purtroppo, una perdita di tempo e di soldi.
• L’università mi ha dato le abilità che sfrutto oggi nel mio lavoro? Non proprio. Mi ha insegnato molta teoria su lingue e traduzione, ma tutto ciò che è pratico l’ho imparato da sola e sulla mia pelle prima e dopo la laurea.
L'università non è un ponte al mondo del lavoro
In questi ultimi otto anni, ho capito che professionalità e capacità non si misurano — né mostrano — con un pezzo di carta perché quel pezzo di carta troppo spesso non riflette la persona che lo tiene in mano.
In Italia, purtroppo, la Laurea Breve ha disatteso le aspettative che avevano le famiglie.
Per questo ha senso rammentare che ai miei tempi esisteva soprattutto la Laura quinquennale e quando in Italia è stata introdotta quella triennale, si diceva che soltanto una parte degli studenti avrebbe dovuto proseguire gli studi, quindi aggiungere ulteriori due anni, al fine di ottenere una laurea specialistica o di approfondimento scientifico. In pratica, si diceva che la Laurea Breve avrebbe dovuto introdurti direttamente nel mondo del lavoro.
In realtà, le cose sono andate diversamente.
Complice anche l’Europa, la moneta unica, l’apertura delle frontiere, la globalizzazione, ed in particolare, i mercati aperti, le lingue sono diventate il passpartout indispensabile per il mondo del lavoro, ma la formazione Didattica universitaria non era preparata a questo passaggio e ci ha messo parecchi anni a correggere il tiro. Chi si è trovato in mezzo ha dovuto fare di necessità virtù. Come Carlotta, probabilmente, tanti altri giovani studenti, ognuno con la propria esperienza diversa.
Gli intenti delle Lauree Brevi, lo ricordo bene, all’epoca erano altri. E sono state poche le Università italiane che hanno messo l’acceleratore correggendo il tiro per tempo, preparando fattivamente gli studenti al mondo lavorativo. A non subire questa dicotomia pare siano stati soltanto quegli studenti che allora hanno potuto frequentare l’Erasmus (non economicamente alla portata di tutti). Da 10 anni a questa parte, i fatti dichiarano che tra gli studenti italiani che hanno partecipato ad un corso Erasmus si registri un tasso di disoccupazione pari circa alla metà di quelli che non vi hanno partecipato. Una sostanziale differenza.
E così, almeno in Italia, la preparazione al mondo del lavoro, al contrario di cosa avrebbe dovuto essere, è stata affidata soprattutto al biennio della Laurea Magistrale (da non confondere con il Master). Quindi agli ulteriori due anni successivi alla Laurea Triennale.
La mia analisi si allarga infine ad altre considerazioni. Purtroppo, i giovani studenti italiani, rispetto agli altri giovani europei, partano certamente svantaggiati indipendentemente dal sistema scolastico Universitario. Chi gravita in Italia non ha ancora compreso quanto sia fondamentale sapere la lingua inglese, che certamente, se non la più parlata, è la più internazionale delle lingue usate nel mondo del lavoro. E nemmeno la Scuola aiuta a capirlo. E così, non dico un tedesco o un finlandese con una buona cultura Universitaria, ma anche un ragazzo che ha abbandonato gli studi e lavora al distributore in quella bellissima nazione che è la Grecia, in quanto a chance lavorative, già soltanto per il fatto che parla e capisce bene l’inglese, sarà sempre più avvantaggiato di un qualunque italiano che abbia frequentato l’Università in Italia.
Non sono d'accordo, però, sul fatto che il problema sia la triennale. Per come la vedo io, per come l'ho vissuta e per come vedo che la vive ancora la maggior parte degli studenti laureatisi da poco (fratelli e sorelle di miei ex compagni di corso o i miei stessi studenti), non è questione di quantità (tre anni invece di cinque), bensì di qualità. Le università moderne hanno tutti gli strumenti e gli esempi (e se non li avevano 8 anni fa quando ho finito io, certamente li hanno oggi) per offrire un'educazione migliore e più mirata a proiettare i propri studenti nel mondo del lavoro (in cinque, tre o mezzo anno).
Inoltre, l'esperienza che ho io dell'Erasmus attraverso i racconti di coloro che lo hanno fatto (in questo caso, nessuno escluso) è ben diversa: è una bellissima esperienza di vita vissuta in cui si incontrano molte culture e nazionalità diverse, ma non è affatto produttiva a livello scolastico (mi raccontano che è più come un carissimo anno sabbatico di feste e vita notturna, in cui, per mancanza di organizzazione delle strutture e dei corsi, si possono dare molti meno esami di quanti se ne sarebbero dati in Italia, cosa che spesso allontana il giorno della laurea di almeno un anno e di qualche migliaia di euro). Le percentuali di cui parli, per quanto possano essere vere, non credo che riflettano l'efficacia dei sei mesi in Erasmus, bensì dell'indubbia apertura mentale di un'esperienza all'estero (e per questa non serve certo l'Erasmus).
Insomma, credo fortemente che oggigiorno l'università, o meglio, l'intero concetto di educazione sia sbagliato alla base e per questo spero che realtà come Praxis di cui parlo nel post, si facciano strada nel futuro dell'educazione e siano presto una reale opportunità anche in Europa.